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Lutto. Lavoro. Italia.

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Pubblicato in originale su:

LinkedIn

Data di pubblicazione:

21/05/2024

Quasi tre mesi fa, senza preavviso, il mio compagno è morto.

Perché lo scrivo su LinkedIn? No, non è uno di quei post pietistici per fare networking che ormai piagano questo social. Ne scrivo perché ci ho ragionato sopra: sul modo con cui come società ci rapportiamo al #lutto e sul modo in cui il lutto si intreccia con il lavoro.

E siamo messi male.

Ieri, con molta fatica, ho consegnato in estremo ritardo un articolo con deadline a marzo. “Con estremo ritardo” perché un lavoro creativo – qualsiasi lavoro creativo – richiede una mente pronta, sgombra e recettiva. Cosa che nelle prime fasi di un lutto è difficile avere. Ci ho messo un po’ ad accettarlo, e a scrivere al mio committente che avrei rinunciato a quella commessa: ci ho messo un po’ perché siamo abituati a pensare al lavoro come a qualcosa che non si può smettere di fare, o che si deve tornare a fare il prima possibile.

La normativa italiana prevede un *massimo* di TRE giorni di permesso retribuito in caso di lutto di un coniuge o un parente fino al secondo grado (nonni, nipoti). La ratio è prettamente burocratica, legata all’infinità di cose da fare dopo un decesso. Ma non prende in minima considerazione lo stato mentale del lavoratore, a cui è richiesto di produrre prima, molto molto prima di star bene. Anzi: di stare decentemente, che “bene” è spesso un concetto lontano anni.

Questo ragionamento è valido per i lavoratori dipendenti: gli autonomi non hanno ovviamente diritto a nulla (come per la malattia, dopotutto).

Ma il problema è prima di tutto culturale: le iniziative di supporto alla gestione del lutto, in Italia, sono scarse. E sostanzialmente inesistenti per quanto riguarda il rapporto della persona in lutto con l’attività produttiva: ci si aspetta che tutto il bagaglio emozionale e psicologico venga gestito in silenzio, con discrezione e senza influire negativamente sui risultati. Da questo punto di vista manca totalmente il welfare.

Si tratta del riflesso di una società che vive ancora il lutto come un taboo. Qualcosa da nascondere, qualcosa di cui non parlare, qualcosa da non elaborare. Qualcosa che dovrebbe essere ininfluente nelle nostre vite, ma ininfluente non è.

Forse dovremmo cominciare a lavorarci su.

Chi sono

Potete chiamarmi Gatto Nero, gattonero, ergattonero o tutte le infinite varianti di questo nickname che indosso da più di vent’anni.

All’anagrafe però resto Claudio Mastroianni, classe 1981, calabrese trapiantato altrove.

Attualmente in Sardegna.

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È un sito volutamente old style: se vi sentite trasportati negli anni Novanta, benvenuti nel magico mondo della vecchiaia.

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Questa sezione invece è “Curated“, una raccolta semi-ragionata di miei post pubblicati sui social nel corso del tempo. È il mio modo per tenere traccia di cose che altrimenti andrebbero perse.

Se invece cercate più il mio lato professionale, come digital consultant e content strategist, date un’occhiata al mio sito principale ClaudioMastroianni.com.